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Rosy / Alessandra Carati

"Ciascuno di noi sa fare il male"

Rosy di Alessandra Carati

Mi sono avvicinata a “Rosy” con un misto di pregiudizio, perché sulla strage di Erba ho letto e mi sono documentata molto, e anche un pizzico di invidia nei confronti di Alessandra Carati. Come giornalista e aspirante scrittrice, infatti, non potrei che desiderare di scrivere una storia così.

Poi, leggendo, anzi, ascoltando l’audiolibro, ho percepito il fardello di cui l’autrice si è caricata nel relazionarsi con una donna condannata all’ergastolo per un delitto terribile, con un vissuto e una personalità che, leggendo, appare inafferrabile.

Affrontata la parte degli interrogatori, delle “confessioni”, dopo aver descritto lo sguardo della gente, dei giornalisti, degli inquirenti, degli avvocati, Carati guarda Rosy con i suoi occhi. E non distoglie lo sguardo mai. E sorprendentemente in quella storia nera di cui si è detto tutto e il contrario di tutto, trova un’altra storia. Quella di una donna che nel carcere ha provato a trovare un riscatto personale, un’emancipazione, una ragione di esistere.

E l’unico raggio di luce in una storia buia come la notte è in quello sguardo umano, in quel rapporto senza reciprocità, fatto di visite settimanali e di fiumi di frasi sconnesse e lacrime, nel coraggio di trovare le parole da scrivere. Ma, soprattutto, nel coraggio di guardare, dove il mondo non vuole vedere. E nella frase del cappellano del carcere di Opera: “ai cristiani non piace sentirsi dire che non sono diversi da un detenuto, perché vivono nella convinzione che a loro non potrà mai accadere di fare il male. (…) Ciascuno di noi sa fare il male”.

È un libro forte, che arriva come una coltellata, che non ho potuto smettere di leggere e al quale penso e penserò ancora per molto tempo.

La trama

Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio 2007, Rosa Bazzi e Olindo Romano lasciano Erba sui sedili di una volante dei Carabinieri. Pensano che gli agenti li stiano portando in salvo dai giornalisti che, dall’alba, assediano la loro casa. In meno di un’ora si trovano dentro il carcere di Como, dove comincia una detenzione destinata a diventare ergastolo, condannati per aver ucciso quattro vicini di casa e averne ferito gravemente un quinto – uno dei più grandi casi di cronaca recente, conosciuto come “la strage di Erba”.

Alessandra Carati incontra Rosa Bazzi per la prima volta all’inizio del 2019. Tra luglio e febbraio dell’anno seguente, le fa visita in carcere ogni settimana in sessioni che durano ore.

“Mi sfogo con te come con il prete” le dice la donna, e la travolge con discorsi contraddittori, inattendibili, al limite della comprensibilità. La costringe al suo caos. L’autrice credeva che conoscerla di persona le avrebbe permesso di separare i fatti dai detti; invece la vicinanza ha offuscato il quadro. Nel tentativo di capire, cerca lo sguardo di chi l’ha frequentata negli ultimi diciassette anni: la psicologa, gli avvocati, e poi il cappellano, il marito Olindo attraverso le lettere che le scrive.

Scopre così un’infanzia negletta, il lavoro ancora bambina a servizio delle famiglie dell’Erbese, il matrimonio a vent’anni e la dipendenza da Olindo, il faticoso adattamento alla detenzione. Solo allora torna in carcere. Rosa però non è conforme a nessun racconto che ne è stato fatto, continua a resistere come un disturbo indecifrabile.

È proprio in quel momento, nella rinuncia a ogni immagine di lei – e nella fatale domanda su dove si sono formate queste immagini, a quali condizioni, con quali conseguenze – che affiora, come in una polaroid, Rosy.

 

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